Fernanda Fedi. Opere scelte 1971-2001.
Superficie anomala- galleria d'arte Milano.
9-27 Aprile 2002
Pagine di scrittura
di Alberto Veca, Storico dell’arte
Per sottolineare principalmente la costanza con cui l’opera d’arte, a dispetto delle diverse stagioni percorse, può essere concepita da Fernanda Fedi come una “circostanza” comu-nicativa, un ”luogo” di scambio di informazioni come di emozioni; in seconda istanza il titolo orienta l’attenzione sulla parte più consistente della ricerca, anche se nell’occasione vengono segnalati alcuni esiti, se non iniziali, comunque precedenti lo sviluppo successivo: questa esposizione documenta, infatti, un consistente arco cronologico del lavoro, dai primi degli anni settanta alla soglia iniziale del terzo millennio.
Si tratta certamente di una campionatura, pensata in relazione allo spazio della galleria: sono allora assenti opere recenti di grandi dimensioni come alcune installazioni della metà degli anni ottanta in cui convivono figure e tecniche diverse, sinteticamente documentate da oggetti di più ridotta ampiezza, comunque capaci di testimoniare, se non l’impatto che il grande ingombro comporta, l’atteggiamento aperto, sperimentale dell’avventura.
Ne emerge, per il privilegio determinato da una visione “a distanza”, un percorso per “discontinuità”, se vogliamo una esplorazione a tutto campo tanto dal punto di vista dei materiali quanto da quello dei linguaggi di volta in volta adottati. Questo può essere determinato dalla costante attenzione che l’artista ha prestato alle vicende artistiche succedutesi in questo intervallo che pertanto possono essere lette in filigrana nel mutare dei mezzi espressivi: da una astrazione geometrica, “strutturale” per usare un termine magari datato ma ancora dotato di una certa efficacia, alla congiuntura analitico/concettuale, capace di riflettere e di proporre esplicitamente gli strumenti dell’operare, alla contaminazione fra linguaggi e strumenti che appartiene a una volontà di una maggiore affermazione della capacità di “dire” che l’opera plastica può contrarre, dal grafo alla parola, alla nota musicale.
E questo è una prima caratteristica del lavoro di Fedi, attento all’apertura, allo speri-mentare, anche alla curiosità, una sorta di “nomadismo” capace di cogliere nell’attualità come in un passato remoto lo spunto per operare. In questo modo può essere compresa la scelta, solo apparentemente contraddittoria, della parola della poesia del Novecento e quella, oscura per senso, di un alfabeto leggibile ma incognito come l’etrusco delle opere più recenti.
Dall’indagine sulla pittura ”oggettuale” degli esiti dei primi anni Settanta, in cui la figura interna al campo ne delinea anche il perimetro, si passa alla riduzione della tavolozza alla scala dei grigi per una figura modulare diversamente ritagliata nel campo; successivamente il riapparire del colore, disciplinato in bande regolari adiacenti, quasi il quadro fosse il frammento di un continuo più grande, si possono cogliere le tappe significative della piena maturità dell’artista. In entrambi i frangenti, descritti in modo fortemente semplificato, vi è comunque il dato costante del carattere “narrativo” che l’immagine contrae, non centrata cioè su una figura statica, individuata e isolata nello sfondo, ma particolare di una serialità che, sia pure con soluzioni diverse, sarà successivamente ripreso.
Poi la svolta: la ridimensione dell’immagine in un campo bianco in cui compare, con-corrente e dialettica, la scrittura, una inserzione che inizialmente incide nell’impaginazione dell’immagine, non nella sua fisionomia. Risulta, da questo punto di vista, determinante la soluzione concettuale del fare artistico che, raffreddata rispetto agli esiti che il laboratorio Dada aveva proposto, colloca sullo stesso piano, azzerati dal consumo, gli strumenti e-spressivi nell’ampiezza della loro varietà.
È questo, credo, il momento nevralgico nel cambiamento di rotta della ricerca: precedentemente Fedi aveva realizzato una pittura “autoreferenziale”, che nel proprio disegno e nella scelta di una tavolozza drasticamente ridotta trovava il suo esaurimento. Nella fase in questione a questa si aggiunge, dialetticamente, un “titolo”, una insegna verbale che ne influenza la lettura.
L’attenzione per la valenza narrativa della pittura mi sembra sia già implicita nelle opere precedenti perché nel modificarsi controllato del pigmento si trovava l’elemento variante, capace di dare una fisionomia distinta al singolo dipinto. Questo, in un rapido indagare, un ulteriore dato costante in una difformità di esiti che indica un secondo aspetto del fare dell’artista, la cui “disciplina” non si identifica con un mezzo espressivo o uno stile costanti ma, ecletticamente, in relazione a un processo interno ma anche a ciò che può avvenire all’esterno dello studio.
Successivamente, in una logica conseguente, protagonista del fare diventa l’investigazione della parola, poetica principalmente, colta nell’aspetto figurale del verso, che è frammento ritmicamente concluso in un ingombro specifico nello spazio del foglio. In questa fase dimensione e andamento del segno, la stessa campitura cromatica diffusa sono dipendenti dalla scrittura.
La parola scritta, nelle opere dei primi anni ottanta, acquista il ruolo di determinante contraltare della figura plastica, quasi che il raccolto proposto per figure della geometria fosse insufficiente a completare il discorso. Se vogliamo un caso di “contaminazione di linguaggi” che produce le prime, ancora ben distinte sperimentazioni: dal campo bianco che ospita tanto l’immagine, memoria delle indagini precedenti, e il breve testo, il titolo, si passa a una più intrigante relazione. I due registri infatti si fondono e la certezza si converte in interrogativo perché anche il fondo inizia cromaticamente a partecipare all’avventura.
Il quadro allora diventa “pagina”1, un campo che immediatamente suggerisce la bidimensione delle due facce: non a caso in anni recenti Fedi ritornerà sul tema del recto/verso, conseguentemente della scultura, sia pure interpretata in un modo limitato alle due facce consuete e al loro profilo, alla vista laterale. Mi sembra questo un secondo punto essenziale della traiettoria perché all’iscrizione, e quindi al libro, nelle sue diverse declinazioni e forme verranno dedicate le ricerche successive. E sembra importante segnalare, accanto a una produzione variata di personali “libri d’artista”, abili a esplorare le forme variate del foglio, anche l’attività di raccolta, censimento e divulgazione di tale strumento in collaborazione con Gino Gini sotto l’insegna del Laboratorio 66.
Parola, grafo e traccia cromatica diventano protagonisti dell’avventura. Perché allora una scrittura di un alfabeto, anche leggibile, ma di una lingua di difficile se non incognita comprensione come l’etrusco? Vi è in questa scelta un esplicito richiamo alla necessità di osservare le iscrizioni che la volontà dell’uomo produce, ma aggiungerei anche le tracce che il tempo determina. Il fondo che variamente interviene nelle iscrizioni, fra stesure cromatiche e inserti materici, interagendo con esse fino alla sovrapposizione, alla cancellazione parziale, è illustrazione dell’agire non programmato della consunzione. In sintesi un interrogativo su quel monumentum aere paerennius che appartiene alla superba storia della scrittura e che viene, fra ironia e dramma, messa in dubbio.
Dalla parola al verso della poesia, al frammento di frase, si evidenzia una traiettoria che dice paradossalmente la facilità di comunicare “per segni” e la difficoltà di una sua decifrazione: la sua intelligenza è una regolata mediazione fra la sua capacità logica di decifrare e l’appropriazione del senso. Ma se l’operazione risulta difficile, non per questo vi è la rinuncia a comunicare, partendo magari da una tabula rasa, per restare nel gioco delle metafore.
Milano, febbraio 2002
1 Può essere riduttivo autocitarsi per confermare un concetto, ma lo stesso termine è presente in un precedente intervento “Quasi una fantasia” pubblicato nella monografia Fernanda Fedi. Criptogrammi e scritture etrusche, Milano 1996