Pensiero critico di Elena Pontiggia sui sismogrammi di Fernanda Fedi
Fernanda Fedi: la scrittura e la vita
Elena Pontiggia, giugno 1988
O vivi o scrivi, dice l’antico aforisma latino.
Borges, da parte sua, ha parlato di una scrittura infinita, che immobilizza e rende impossibile la vita: i cartografi della Cina disegnano una mappa del loro territorio così perfetta da richiedere una dedizione assoluta. Non vivono più, registrano la vita. La scrivono, appunto.
Negli ultimi lavori di Fernanda Fedi l’aut-aut non si pone, o meglio si risolve in una sottile disperazione, tra grazia e ossessività. La scrittura diventa un flusso vitale, un battito cardiaco millimetrico, un trasalimento o un tremito.
Non è estranea alla vita, ma anzi è come se volesse catturarne il respiro, le “sconfinate amarezze” (Pascutto), i leggeri colpi di rasoio che ne incidono la pelle.
Così i disegni della Fedi diventano squame, o graffi, o ricami. Diventano stenografie fiamminghe.
Che non siano un dato intellettuale lo dimostra il loro illuminarsi o accendersi di colore.
Compaiono sulle carte gialli improvvisi, rossori e viola dilaganti, chiarori liquefatti. Il bianco e nero della scrittura “razionale” lascia il posto a fasci di luce inaspettata, talora brusca e stridente.
Su queste superfici liquide il segno si posa regolare (regolare nei suoi lievi mormorii, come una litania rosariante o come un pianto senza lacrime sommesso e continuo, che non ha ragione di interrompersi).
L’opera della Fedi non è decifrabile, e non potrebbe esserlo. Della vita si può dire che è non che cosa è. Così la scrittura diventa un’allegoria di se stessa, una maschera dell’espressività.
C’è una delicata coazione a ripetere in questa grafia incerta eppure costante, che formicola sulla superficie. Ma c’è in esse, anche, un tentativo di razionalità, o di ragionevolezza: la scrittura e la narrazione, anche se oscure e misteriose, solo il sintomo di una volontà di esplorare, di capire il flusso vitale.
C’è, ancora, una soave leggiadria nell’inanellarsi dei segni: la decorazione, già lo aveva notato la Scuola di Vienna, vive attraverso la ripetizione, procede per sequenze.
Gli ornamenti segnici di Fernanda Fedi, pur intimamente drammatici (qualcuno ha detto che solo il dolore cerca le parole, la felicità invece è appagata da sé) si offrono alla nostra visione come una mobile trina, bagnata dal colore.
Il ritmo che le pervade non si esprime in suoni. Si esprime in una silenziosa musica della mente.